Polittici di Hans Hartung alla Galleria nazionale dell’Umbria
di Francesco Pullia •
Quaranta lavori su carta, sedici dipinti di grandi dimensioni (di cui sei esposti per la prima volta) realizzati tra il 1961 e 1988, un’opera d’intenso blu posta innanzi al Sant’Antonio (338 x 230 cm.) di Piero della Francesca a testimonianza di un dialogo che, nell’arte e grazie all’arte, travalica ogni possibile separazione diacronica. La mostra Hans Hartung, Polittici, curata da Marco Pierini, direttore del Polo museale dell’Umbria, e allestita alla Galleria nazionale dell’Umbria su progetto espositivo di Daria Ripa di Meana e Bruno Salvatici con la collaborazione di Niccolò Franchi e Goffredo Mariani, proietta Perugia e l’intera regione in un orizzonte internazionale. In corso fino al 7 gennaio 2018, ha il grandissimo merito di richiamare l’attenzione su uno degli autori più originali della produzione artistica del Novecento (Lipsia, 1904 – Antibes, 1989), tra i maestri indiscussi di quello che, per comodità, viene genericamente definito astrattismo europeo. Organizzata con il concorso della Fondation Hartung-Bergman di Antibes e l’apporto della Fondazione Burri, non solo non viola la riservatezza e l’esclusività di un luogo come la Galleria nazionale, che vanta una prestigiosa collezione di tavole di pittori come Duccio, Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Piero della Francesca, Perugino, ma anzi ne valorizza la peculiarità evitandone la riduttiva trasformazione in un contenitore chiuso, avulso dalle dinamiche sociali. L’esposizione, di cui è stato pubblicato da Magonza un bel catalogo illustrato, con contributi dello stesso Pierini, di Elsa Hougue, Thomas Schlesser, Marco Vallora, propone una tipologia di opere, recanti sul retro l’indicazione polyptyques, caratterizzate da omogeneità e unità intenzionale. Sin dal 1921, in un periodo in cui le avanguardie storiche denunciavano stanchezza ed esaurimento d’inventiva, Hartung, accordando segni e cromatismi, cerca di affrancare la composizione da algide geometrie e costruttivismi. La macchia coloristica inizialmente si espande, quasi si scioglie sulla superficie configurandosi, nella percezione, come forma. Già allora si palesa l’intenzione dell’autore di svincolarsi da riferimenti simbolici per accentuare la forza e il valore gestuale dell’atto del dipingere. Nel 1974 scriverà di prefiggersi di riuscire ad esprimere reazioni alla vita interiore. Questi polittici, che occupano un posto rilevante nella biografia artistica, intrisi come sono di profonda spiritualità, tanto da evocare a tratti il calligrafismo zen, lo attestano chiaramente. Anche a causa dell’infermità che lo costrinse a stare sulla sedia a rotelle (nel 1944, gravemente ferito in un’azione della Legione straniera, cui s’era arruolato, era stato mutilato della gamba destra), Hartung si dedicò a sperimentare nuove tecniche, ricorrendo all’aerografo e a strumenti complementari al pennello: scope ricavate da rami di ginestra intinta in vernice nera, spazzole, pettini in legno, rastrelli, arnesi artigianali adoperati, come sottolinea Pierini, in maniera anomala e inattesa. E dell’inatteso Hartung è appassionato cantore. Nella sua pittura su tela si notano, come ha messo bene in evidenza Thomas Schlesser, soprattutto tre metodi: 1) la riunione di diversi pannelli, ognuno dei quali elaborato, però, autonomamente in modo da non farne coincidere i bordi; 2) l’attraversamento di più tele contigue con un unico gesto, con la produzione di dittici, estesi in orizzontale, anche di oltre sei metri; 3) la disposizione di tele in successione su cavalletti
evitando che, tuttavia, possano toccarsi al momento della pittura. Colpiscono al piano superiore della sala Podiani i lavori su carta legati tra loro da uno spesso nastro adesivo, del tipo di quello usato per confezionare pacchi. In alcuni casi il nastro adesivo è stato rimosso, in altri, invece, mantenuto con funzione di cornice. Realizzate in uno stesso giorno del 1975 con inchiostro, pastelli, matite, acrilici su cartone dal rivestimento molto liscio, queste opere sono percorse da saette, orme, impronte, tracce che s’intersecano. Per volontà dell’artista, ognuna è rispetto all’altra in rapporto d’interdipendenza e insieme d’autonomia come ad indicare l’evolversi e l’aspirazione del segno. Un modo per descrivere la problematicità (e drammaticità) del fare artistico, inevitabilmente spinto e destinato ad alienarsi nel momento in cui si raccoglie in sé e, viceversa, costantemente richiamato da un moto centripeto alla propria origine.